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SITO UFFICIALE
TONY MONTECALVO & THE DREAM CATCHERS

Original Folk'n'Roll

Tony Montecalvo &
The Dream Catchers

Tony Montecalvo, dopo anni passati a suonare cover di Rock Americano con i THE BACKSTREETS, decide di testare le proprie canzoni in un Solo Acoustic Show.

Visto l'interesse coinvolge nel progetto un violino ed una fisa per arricchire il suond con un taglio Folk-Blues.

Infine, con l'aggiunta di una base ritmica e di una seconda chitarra, prende forma la band definitiva, i DREAM CATCHERS.

Con questa formazione la band inizia una proficua attività live e la registrazione del primo cd TRAMPIN' TRAIN che esce nel 2019.

Il sound è una miscela di Folk-Rock-Blues-Country suonata con gli strumenti della tradizione Americana figlia delle immigrazioni come la Fisa, il Violino ed il Banjo a colorare la base Rock delle chitarre e delle ritmiche.

Dal gennaio 2022 Il batterista Andrea De Cesaris lascia il posto a Mario Crescenzo pur restando nella nostra famiglia come consigliere e produttore.

2022, ingresso ufficiale in pianta stabile di Andrea Montecalvo al basso, fratello di Tony sostituendo definitivame l’amico e grande  Pino Giudicianni che ha fatto parte dello “zoccolo duro” dei Dream Catchers.

Sul nostro palco potrete vedere all'opera la band in questa formazione:

Tony Montecalvo - Voice / Acuostic Guitars / Banjo Guitar / Harmonica

THE DREAMS CATCHERS are

Francesco Ciccone - Fiddle

Angelo Vincenti - Fisa / Piano / Organ / Keyboards / Vocals /Choirs

Luca Teson - Electric and Acoustic Guitars

Andrea Montecalvo - Bass / Choirs

Mario "Frullino" Crescenzo - Drums

Angelo "Cignale" Giuliani - Percussions / Colours / Shells / Spoons and everything you can beat

Per info e live:

Tony Montecalvo 338 2732020

YouTube Channel

https://www.youtube.com/channel/UCT5nDJ3zLPrgwS07ZWBp_RQ/featured

Trampin' Train cd

https://tonymontecalvo.bandcamp.com/releases

Band Live Demo Video

https://youtu.be/b4nhT8VjibQ

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Il Prossimo Appuntamento

 

Al momento la band non ha in programma live per un piccolo intervento
che dovrà subire Tony per aver cura delle sue ginocchia
. 
Inoltre si approfitterà per mettere mano al prossimo album
Trampin' Train available now on

 

 

 

Recensione CD di Giorgio Ceccarelli

In un esergo al cd di Tom Russell “The long way around”, la cantante Nancy Griffith scrive: “Chiudi il telefono, spegni la TV, ascolta questo album ancora una volta e ancora e ancora…”.

E’ un consiglio ho fatto mio nelle ultime settimane con l’album “Trampin’ train”, una delle esperienze musicali per me più interessanti di questo fine 2022. (Fra l’altro Tom Russell è fra i musicisti “basici” che formano l’universo poetico di Tony - penso a Beyond the blues o California snow tra le altre -, insieme con molti altri autori, tra cui quelli citati nella song che dà il titolo all’omonimo cd.)

In questa immersione mi sembra di aver individuato due linee guida o gruppi di songs: quelle che si inseriscono in un filone che chiamerei le “wayfarer songs”, o songs del viandante, del viaggiatore inquieto, dell’errabondo irrequieto, insomma delle canzoni che si situano nella vastissima direttrice del viaggio, dall’Ulisse omerico al Siddharta di Hesse, percorso che trova la massima espressione  figurativa del concetto del wanderer romantico nel dipinto “Viaggiatore su un mare di nebbia” di Caspar Friedrich del 1818.

In questo gruppo metterei sia le già citate “Trampin’ train” e “Switch in Dublin” oltre a “Take me as I am”. In quest’ultima vi è una esplicita e reiterata volontà di fuga dal consueto: “la mia anima vuole andare”, “voglio essere ovunque”, “vado in cerca di nuove terre” ecc, il tutto al ritmo incalzante di una giga irlandese, una antica danza di andamento vivace, derivata dalla forma popolare della jig britannica, che trovò una sua consacrazione classica in Bach e Handel, ma anche nei più moderni Debussy, Schoenberg e Stravinskij.

La giga è l’espressione più immediata del cosiddetto folk yankee che nasce sui monti Appalachi, nel sud-est degli Stati Uniti, rifugio dei più irriducibili coloni irlandesi e scozzesi, dove anche gli schiavi neri si rifugiavano dopo essere fuggiti dalle piantagioni nelle pianure. Nelle dure condizioni di vita delle montagne la musica era una delle rare occasioni di svago e nelle feste nei granai annaffiate da abbondante whiskey di contrabbando, è nata una musica scarna e ruvida, fatta di percussioni grezze, dal violino europeo e dal banjo africano, un suono arcaico ed incalzante. Si è così formato un repertorio di musiche da danza travolgenti e di canzoni che raccontano la dura vita dei montanari dei tempi andati. Ladri di polli e giocatori d'azzardo; indiani e cacciatori di frodo, contrabbandieri, alcolisti, che cantano le loro gioie ed i loro dolori.

 

In tema di viaggi mi piace citare un riferimento musicale e poetico caro a Tony: “The Ghost of Tom Joad” di Bruce Springsteen, anche se racconta di un viaggio completamente diverso, trattandosi di una vera e propria trasmigrazione forzata per motivi socio-economici.

Il crollo della borsa di New York nel 1929 e la crisi economica che ne seguì è conosciuta come “Grande depressione”. La conseguenza finale di questa crisi che poi si estese a tutto il mondo (eccettuate poche nazioni) fu il licenziamento di milioni di lavoratori (14 milioni di disoccupati nei soli Stati Uniti), il depauperamento della classe media borghese, la rovina di migliaia di famiglie. E questo stato di cose durò molti anni. Solo con il New Deal rooseveltiano e lo scoppio della II guerra mondiale le cose lentamente migliorarono.

Cinque milioni di coltivatori americani, circa un milione di famiglie, furono espulsi dai loro terreni, soprattutto al sud e nel Mid-west, pignorati dalle banche, perché non riuscivano a pagare i debiti contratti. Gente che dovette lasciare la propria casa ed errare qua e là senza meta, senza denaro e senza proprietà; che si trovò confusa tra le masse di milioni di disoccupati, impossibilitata a trovare un lavoro, preda di sfruttamento gangsteristico.

E’ esattamente il quadro, grandiosamente tragico, che il romanziere John Steinbeck ha descritto nel suo “Grapes of Wrath” (letteralmente “L’uva dell’ira”, in italiano “Furore”): una povera famiglia di mezzadri, i Joads, cacciata dalla loro terra dai debiti, dalla miseria e dal Dust Bowl (in quegli anni, per giunta, le terre troppo sfruttate dalla nuova agro-industria si isterilirono, tutto il Midwest agricolo divenne una “scodella di polvere” https://it.wikipedia.org/wiki/Dust_Bowl ) vagano in cerca di lavoro e di dignità; e si ritrovano nella Central Valley californiana insieme a migliaia di altri disgraziati privati di tutto, angariati e sfruttati da padroni che hanno a loro disposizione, per mantenere l’ordine, delle organizzazioni criminali.

Prima del Boss anche Woody Guthrie aveva composto una song su questo personaggio (interessante in proposito la consultazione di questo sito di canzoni anti-war: https://www.antiwarsongs.org/canzone.php?id=5204) ma mi riferisco alla composizione di Springsteen perché credo che ciò che essa rappresenta sia alla base di tutto l’universo compositivo di Tony. C’è naturalmente una differenza fondamentale tra il concetto di viandante romantico sopra menzionato e il viaggio come trasferimento intrapreso da Tom Joad. Il verso “no home, no job, no peace, no rest” nella canzone di Springsteen riassume in senso desolatamente pessimistico le difficoltà esistenziali del protagonista, ben lontane dalla vera e propria ansia di viaggio e di scoperta.

Elementi invece che sono alla base del girovagare nel genere musicale cosiddetto “folk cowboy”  che oltre all’aspetto tipico del vagare nelle immense distese del Middle West e del West è caratterizzato dalla idealizzazione del mito della frontiera, del “wilderness”, una distesa indefinita e irreale dove la realtà era intrecciata con il mito e la leggenda.

In termini musicali la differenza con il “wanderer” romantico è ovviamente enorme, ma il “sentimento” che li pervade è identico. Paradigmatico è il “Winterreise” (“Viaggio d’inverno”) del 1818 di Franz Schubert (https://it.wikipedia.org/wiki/Winterreise) in cui il compositore rende il suo Wanderer (il suo viandante) - che cammina su strade innevate e ventose, bandito (o forse in fuga) da una casa calda e un tempo accogliente - un personaggio inquieto, fortemente byroniano, inevitabilmente affascinante.

Tutti questi filamenti si ritrovano nelle canzoni di Tony di “Trampin’train”, talvolta espliciti, talaltra sottaciuti e qualche volta, forse, inconsapevoli.

 

L’altro filone - o gruppo di canzoni - che si trova nell’album è quello inevitabile delle “intimate songs”, cioè che provengono da intime esperienze personali e come tali vengono raccontate. Penso che tutte le canzoni - soprattutto di questa tipologia - sono suscettibili di interpretazioni per lo meno su due livelli (molte canzoni di Dylan addirittura su tre livelli). Il primo livello è quello che definirei personale, cioè privato, intimo, in cui si esprime una emozione bella o brutta, gradevole o disperata, gioiosa o malinconica. E’ la confessione - personale in quanto rivolta a se stessi - in cui il racconto può diventare anche sfogo e liberazione della propria intensità emotiva.

 C’è poi il livello “meta-personale”, cioè pubblico, in cui l’autore oggettivizza la propria esperienza interiore proponendola come parametro comportamentale (da seguire o meno, questo non importa) in cui riconoscersi, con i “distinguo” ovvi e doverosi in quanto ciascuno è, vive e crea una propria dimensione personale. In altre parole, se io manifesto una personale esperienza emozionale in una canzone, il fatto stesso di manifestarla al di fuori del “me”, la trasferisco all’esterno, in “altri”, in coloro che possono riconoscersi (o meno) nella stessa esperienza e riviverla attraverso le mie parole, trovandovi eventualmente sublimazione, catarsi, o una semplice rivisitazione empatica.

Tutto ciò è abbastanza ovvio, ma, nello specifico, una canzone di rinascita come “My new world”, una ballata colma di rimpianti come “I’m waiting”, una straordinaria melodia ottimamente costruita come “I close my eyes”, un verso molto bello come “sulla strada del nostro amore non è consentito camminare” presente in “No compromise”, credo possano essere lette in ambedue i livelli cui accennavo.

In questa categoria si situa anche “Empty loneliness”, che ho volutamente tralasciato di citare sopra perché molto particolare. Oso credere (ma io, per lo meno, la sento e la vivo in questo modo) che sia stata composta pensando ad una cara persona che ci ha lasciato. Il “ci” non è plurale maiestatis, ma è proprio consapevolmente il pronome personale di prima persona plurale, in cui anche io mi riconosco. Ovviamente il testo potrebbe riferirsi a qualsiasi persona, partner, amante, amico, la cui compresenza esistenziale non faccia più parte della nostra vita. Ma molti riferimenti mi fanno pensare ad una persona precisa, che “ci” era cara. In una descrizione  ambientale che evoca un quadro di Edward Hopper (vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Edward_Hopper) (il bancone del bar, la sedia vuota, la birra in mano ecc.) sono molti gli indizi che mi richiamano un comune caro amico. Il viso sorridente, i libri, i dischi, i film…E la “empty loneliness” che attanaglia il ricordo… e la delicata melodia che ricorda le atmosfere alla Willie Nile.

Quanto cercavo di spiegare più sopra. Il racconto di Tony declina commozioni personali, e il suo porgerle all’esterno viene raccolto e interiorizzato da chi - nella circostanza anche il sottoscritto - ha vissuto la stessa esperienza, con la stessa partecipazione emotiva.

Diceva Ugo Foscolo nei “Sepolcri”; “Celeste è questa corrispondenza di amorosi sensi” (https://www.google.it/books/edition/Dei_Sepolcri/mSTwDwAAQBAJ?hl=it&gbpv=1&pg=PP8&printsec=frontcover). Tutto è connesso, ma se ne parlerà tra poco.

 

A metà strada tra i due gruppi di canzoni è “The world still spinnin’ around”, in cui il girare “di città in città” si mescola con la propria situazione esistenziale (“sto scavando la mia anima”) con un risultato interlocutorio (“il mondo sta ancora girando”)

 

Al di fuori della classificazione in “wayfarer songs” e “intimate songs” metto “The circle” e “Back in time”. Le unisco perché hanno la stessa soffusa malinconia del ricordo di tempi migliori che sono ormai trascorsi e non possono tornare più.

In “The circle” riemerge il grande amore verso gli amerindi del nord. Se in “Running in the grass” c’era il pericolo incombente che poi sfocia nel dramma, qui il dramma si è già compiuto. Mentre nella prima lo “spirito volava alto sulle colline”, ora c’è una preghiera o una speranza (“manda il mio spirito in alto”). Siamo prossimi alla fine. Tutto è compiuto. Il pensiero del vecchio capo, che aspetta il giorno della chiamata del grande spirito, è tutto rivolto al suo popolo, alle sue necessità “per sopravvivere a un altro inverno”. La storia finisce nella materialità terrena, ma non nella spiritualità. “Volerò sulla mia gente, sarò connesso ai loro cuori” è non solo una credenza religiosa ma anche una filosofia di vita. La sintesi estrema di questa filosofia è “Tutto è connesso” (“Mitakuye Oyasin”) https://it.wikipedia.org/wiki/Mitakuye_Oyasin) che non a caso è la frase posta ad esergo (seconda di copertina in basso a sinistra) dell’intero cd. E’ una preghiera tradizionale dei Lakota Sioux, di cui un famoso esponente fu Alce Nero. “Alce Nero parla” è stato un libro molto famoso qualche decennio fa, su cui poi si è innestata una furiosa polemica (https://it.wikipedia.org/wiki/Alce_Nero). Utile è anche la successiva “La sacra pipa”, biografia anch’essa del capo indiano ad opera di Joseph Epes Brown.

 

Leggendo il primo verso di “Back in time” mi è arrivato, inevitabile, il profumo de “Il pensionato” di Francesco Guccini. Ma è stato un attimo: tanta tristezza e mancanza di futuro c’è in Guccini, tanta gioia del ricordo c’è in “Back in time”. Indubbiamente c’è la malinconia di un tempo che fu, ma il fatto stesso di raccontarlo, insieme al ricordo della “figura di lei”, delle “feste danzanti la domenica pomeriggio” mostra una presenza del passato (in Guccini c’è la completa assenza del passato: “un'esistenza andata in tanti giorni uguali e duri”) con l’esortazione a “rompere i legacci”.

C’è insomma - tra lacrime e sorrisi - una fiducia nel futuro, anche se riservata alle generazioni più giovani.

Questa fiducia mi sembra d’altronde l’asse portante di tutto l’album di Tony. Non mi sembra di trovare mai, nonostante taluni accenti dolorosi, rassegnazione e sconfitta.

Non penso che ne troveremo nemmeno nei prossimi lavori, che ho ragione di credere piuttosto vicini e numerosi.

 

Giorgio Ceccarelli Paxton

p.s. non ho alcuna presunzione recensiva. Quanto sopra sono solo soggettive noticine in libertà, zampillate da una sincera ammirazione ed apprezzamento per il lavoro di Tony.

Giorgio Ceccarelli

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